ACCETTAZIONE – Eleonora Fazzini

L’Associazione Sul Sentiero ha recentemente dedicato due incontri consecutivi di meditazione a due temi che sono complementari tra di loro: accettazione e compassione. Sono complementari perché per coltivare compassione bisogna prima passare da una stato di accettazione.

La compassione è un sentimento che merita la nostra attenzione perché ci può essere di grande aiuto per imparare a prenderci cura degli altri e di noi stessi, in particolare quando andiamo a lavorare sulla nostra storia cioè l’insieme degli eventi che ci hanno portati fino a questo preciso momento. L’accettazione è uno stato mentale davvero prezioso da coltivare dato che certe volte l’unica cosa che possiamo fare è semplicemente accettare il punto in cui siamo, le cose così come la vita ce le ha presentate.

Chiariamo cosa si intende per accettazione: “accettazione” è diverso da passività, cioè non significa che devo farmi andare bene una determinata cosa o farmela piacere e abbandonare ogni desiderio di cambiamento o miglioramento; “accettazione” è anche diverso da sopportazione che si prova invece verso qualcosa che abbiamo provato per lungo tempo a mandare via ma dato che non ci siamo riusciti la tolleriamo perché le energie per continuare a “spingere” si sono lentamente consumate.

L’atto di accettare è invece lasciar intenzionalmente cadere la lotta, smettere di combattere qualcosa che esiste già, dentro di noi o nella nostra vita, nel qui ed ora, che è già presente, e riuscire a lasciare che quella cosa in quel momento sia come sia, farle spazio dentro di noi. Quindi l’accettazione al contrario della passività è un atto deliberato.

Dunque, che si tratti di una parte di noi che non ci piace o un evento che ci causa sofferenza, opporre resistenza emotiva verso qualcosa che in quel momento non può essere cambiata (quindi provare rabbia, amarezza, disgusto, domandarsi “perché a me!”, sprecare tante energie per avere il controllo) raddoppia la sofferenza, l’ansia, la paura. Questo perché la lotta (in questo caso una lotta interiore) crea uno stato di tensione nel corpo e attiva il ramo simpatico del sistema nervoso e noi rimaniamo in uno stato continuo di “attaco-fuga”, cioè di allerta che non fa altro che incrementare il disagio e rischia di creare un circolo negativo dal quale possiamo venire risucchiati.

Roberto Assagioli, padre della Psicosintesi, ci riporta un evocativo esempio del significato profondo dell’accettazione. Assagioli durante il governo fascista nel 1940 fu arrestato e imprigionato per attività pacifiste e da tale esperienza è scaturita questa riflessione:

Mi resi conto che ero libero di assumere un atteggiamento o un altro nei confronti della situazione, di darle un valore o un altro, di utilizzarla o meno in un senso o nell’altro. Potevo ribellarmi, oppure sottomettermi passivamente, vegetando; oppure potevo indulgere nel piacere dell’autocommiserazione e assumere il ruolo di martire oppure, potevo prendere la situazione in maniera sportiva e con senso dell’humor, considerandola come una nuova e interessante esperienza. Potevo farne un periodo di cura, di riposo, o di pensiero intenso su questioni personali, riflettendo sulla mia vita passata o su problemi scientifici e filosofici; oppure potevo approfittare della situazione per sottopormi a un training delle facoltà psicologiche e fare esperimenti psicologici su me stesso; o, infine, come un ritiro spirituale. Compresi che dipendeva solo da me capire che ero libero di scegliere una o più di queste attività o atteggiamenti; che questa scelta avrebbe avuto effetti precisi e inevitabili, che potevo prevedere e dei quali ero pienamente responsabile. Nella mia mente non c’era dubbio alcuno circa questa libertà essenziale…“.
(Da “Libertà in prigione” di Roberto Assagioli).

Da questo scritto si comprende come Assagioli sia diventato consapevole di come anche di fronte a qualcosa di inevitabile esiste sempre la libertà di scegliere con quale atteggiamento porsi nei suoi confronti. Questa consapevolezza parte necessariamente da una stato di accettazione. Assagioli a tal proposito usava una frase molto bella nella sua semplicità e immediatezza: “collaborare con l’inevitabile”.

Nella riflessione di Assagioli si possono individuare inoltre anche i semi di un’importante capacità strettamente legata all’accettazione: la RESILIENZA (capacità di mobilitare le proprie risorse per far fronte in modo positivo ad eventi altamente stressanti o traumatici). Possiamo considerare l’accettazione come il primo e fondamentale tassello della resilienza; infatti fino anche noi non abbandoniamo la lotta con una determinata cosa non possiamo interagire efficacemente con essa e quindi tanto meno crescere e imparare attraverso quella esperienza. Invece se accettiamo che stiamo interagendo con una parte di noi o della nostra vita che ci causa sofferenza, riconoscendo che è già presente in questo momento, possiamo iniziare a pensare di agire delle soluzioni che ci permettano di tendere verso una determinata meta/cambiamento. Quindi se abbandoniamo la resistenza emotiva, possiamo re-incanalare le nostre energie verso qualcos’altro che sia, ad esempio: una soluzione concreta (se è possibile), trovare un modo per compensare, cambiare atteggiamento o qualcos’altro.

Nella pratica meditativa è già insito uno stato di accettazione; meditare significa infatti stare semplicemente con quello che c’è, accogliere senza giudizio. Semplicemente osserviamo e facciamo spazio: accettiamo il respiro così com’è, accettiamo uno stato emotivo del momento così come si presenta, se è presente difficoltà a rimanere concentrati sul respiro, la accogliamo, quindi accettiamo la nostra mente che divaga ecc…

La meditazione quindi ci può aiutare a coltivare e far germogliare questo stato di accettazione.

Ovviamente più sofferenza ci provoca ciò che vorremmo accettare più grande è la sfida per riuscire a fare spazio ed accettarla. Possiamo voler accettare magari un difetto fisico, un’occasione che abbiamo perso, la fine di una relazione, una parte di noi che rifiutiamo o qualcosa di ancora più difficile come la morte di una persona cara o una brutta diagnosi.

Accettare uno stato di sofferenza è sempre una sfida e quando la sfida è molto grande meditare sul respiro o concentrarci sul corpo nelle sue varie parti (ed altre meditazioni tipiche) può sembrarci difficilissimo o magari lo sentiamo come una forzatura dato che tutta la nostra energia è catturata da ciò che ci fa soffrire.

In questo caso può essere di aiuto portare dentro alla meditazione il tema che ci fa stare male e lavorare sull’evocare uno stato di accettazione e compassione per lo stato emotivo che stiamo provando in quel momento. Combattere la sofferenza non ci porterà nessun beneficio, farle posto dentro di noi per accoglierla ci permetterà invece di creare un contatto autentico con noi stessi dove ci sarà spazio per dirsi “ok, sto provando dolore, è un momento molto difficile ed è dura. Ma posso io essere gentile con me”.

Eleonora Fazzini