di Francesco Baroni
Secondo gli antichi il mondo là fuori, il macrocosmo, è lo specchio del nostro mondo interiore, il microcosmo. Lo credevano gli astrologi, che vedevano nel corpo umano il riflesso dell’universo. Lo pensavano gli antichi teologi cristiani, come Origene, che scriveva: “regna una parentela reciproca tra cose visibili e invisibili, terra e cielo, anima e carne, corpo e spirito, e dai loro legami risulta questo mondo” (Omelie sul Levitico).
Forti gli antichi, che vedevano nessi ovunque, dove noi non li vediamo più. Sapienti. Chi è d’accordo con la loro sapienza, chi crede che esista un rapporto tra l’alto e il basso, tra il fuori e il dentro, tra il mondo e l’uomo, converrà che la montagna nella sua essenza ci parla di noi. La sua roccia è uno strato antico della nostra persona. La sua forza, la sua fissità, la sua pazienza sono qualità che abbiamo o che dobbiamo sviluppare. Il suo silenzio è silenzio interiore. Le sue vette sono altezze psichiche. Celate nelle nebbie degli stati di coscienza ordinari, queste altezze si manifestano senza enfasi, con naturalezza, come un fatto, a chi pazientemente cammina. Con gli occhi fissi non sull’obiettivo, ma sulla strada.
Questa la lezione del Pratomagno. Nella nostra rappresentazione astratta, mentale dell’evento, la monumentale Croce di ferro costituiva la meta del percorso. Il risultato da raggiungere, l’obiettivo, il futuro. Ma nel momento in cui abbiamo iniziato a camminare, sorpresa: impossibile cercare di localizzarla, misurare la distanza che ci separava da essa, o capire quale sentiero ci avrebbe condotto lì. La avvolgeva (e ci avvolgeva) una fitta distesa di nubi, mobili ma densissime. Come spesso accade nella vita, il mentale era confuso, privo di riferimenti. Senza sapere bene dove, bisognava andare.
Una foschia bianca e compatta ci ha isolati in una dimensione senza spazio e senza tempo, costringendoci a procedere passo passo. A prestare attenzione ai dettagli: i sassi, il compagno accanto, il sentiero che si snodava evanescente di fronte. Al di fuori dei pensieri, delle aspettative precostituite, eravamo nel presente senza tempo del cammino.
E il cammino ha fatto il resto. Passo dopo passo, istante dopo istante, presente dopo presente, l’alto si è fatto basso, il basso alto; il futuro è diventato presente, e il presente futuro; l’uomo dio, il dio, uomo. Ecco la Croce. C’eravamo. Solo allora il cielo si è aperto. Come in un teatro in cui si accendono le luci, è apparsa all’improvviso una coreografia di montagne, boschi – strade e abitazioni in lontananza. Il cammino fatto per salire balenava di fronte a noi, chiarissimo sotto le nubi cupe, prezioso come un testo antico ritrovato in un manoscritto.